Nella nostra società, la morte, in quanto evento sgradevole e doloroso, è spesso un tabù. C’è molta resistenza a parlarne, nonostante questa faccia appieno parte della vita.
Questo tabù è ancora più radicato quando si ha a che fare con la morte in epoca perinatale (ovvero nel periodo che va dal concepimento ad un anno dopo il parto) poiché al vissuto di estremo dolore contribuisce anche la percezione di un evento innaturale, in quanto la morte coincide con l’inizio della vita. Si tratta di un evento che rappresenta un vero e proprio lutto, al di là dell’epoca gestazionale in cui avviene o dei minuti/ore/giorni in cui il piccolo ha vissuto. Per questo non bisogna svalutare il suo impatto nella vita dei genitori e dell’intera famiglia, un impatto emotivo fortissimo. Nonostante ciò, paradossalmente, è qualcosa di cui si parla molto poco.
In realtà, a livello psicologico, non è poi così paradossale se lo leggiamo prendendo in considerazione le nostre difese. La nostra mente, infatti, si difende proprio dalle cose più dolorose, dalle cose che sembrano ingestibili, su cui si sente di non avere controllo; e lo fa “allontanando” tutto ciò.
Ma è davvero protettivo non parlarne? No.
Sia a livello psicologico, sia rispetto alle ripercussioni sociali, non è protettivo, è dannoso. La perdita di un bambino è spesso accompagnata da un dolore muto… e questo non può cambiare se, a livello sociale, non impariamo ad accogliere questo evento con tutte le emozioni sgradevoli che porta con sé.
È importante dare parola al dolore, renderlo dicibile, e potere narrare l’esperienza vissuta. Perché solo tramite la narrazione è possibile rendere pensabile e, quindi, dare significato ed elaborare.
Questo ovviamente non significa non provare più dolore, ma potergli dare un posto nella propria mente, nel proprio corpo, nella propria vita e integrarlo con quest’ultima. Perché le emozioni, se non vengono espresse, si fanno presenti in modi spesso disfunzionali, attraverso il corpo o attraverso agiti e comportamenti dannosi per sé o per gli altri.
Dall’esterno, il lutto perinatale (soprattutto se la morte avviene nei primi mesi di gravidanza) viene spesso svalutato, non considerato, perché quel bambino non è nato, o ha vissuto per troppo poco tempo, perché non si è vissuto il rapporto con lui. Oppure, a volte, anche se viene riconosciuto, viene svalutato “semplicemente” non parlandone e credendo, erroneamente, che sia bene non nominare quanto accaduto, al fine di non soffrire.
Non parlare della morte avvenuta in epoca perinatale permette di evitare un tema sicuramente difficile, che porta con sé emozioni sgradevoli, però non parlarne significa avallare un tabù culturale lasciando nel silenzio quei genitori che ne hanno fatto esperienza. Ma i genitori l’hanno vissuta quell’esperienza e quel bambino è esistito, che sia riuscito a nascere o meno, che lo si sia potuto stringere o meno.
Il lavoro in ospedale, nel reparto di Ostetricia e Ginecologia, e il contatto con quei genitori, mi hanno resa consapevole del fatto che non è possibile lasciare in una stanza di ospedale il dolore sperimentato. Quel dolore ha tutto il diritto di essere nominato e vissuto.