Fin da quando nasciamo, il contesto familiare, sociale e culturale in cui siamo immersi e poi, nel corso di ogni esperienza successiva, la nostra storia, i nostri pensieri e le emozioni, contribuiscono alla strutturazione della nostra “corazza”, fatta di difese, di abitudini, di narrazioni, credenze e convinzioni su noi stessi e sul mondo circostante. Le difese psicologiche e le abitudini che sviluppiamo ci offrono sicurezza: una corazza protettiva.
Tuttavia, con il tempo, queste stesse difese e le narrazioni personali e culturali, se non tengono conto del bisogno di trovare nuove modalità di adattamento alla realtà, possono diventare rigide, inadeguate per le nuove necessità e limitanti per il nostro sviluppo personale, trasformandosi da strumenti di protezione a gabbie psicologiche.
Questo può essere rappresentato dai momenti di crisi e può manifestarsi con un senso di disagio, malessere o addirittura sofferenza.
È nel momento in cui iniziamo a percepire questa sofferenza che dobbiamo farci la domanda che pone l’antropologo Stefano De Matteis: “Quanto siamo disposti a metterci a nudo? Fino a che punto siamo pronti a rischiare e abbandonare le nostre certezze, a mettere in crisi il nostro mondo consolidato?”.
Abbandonare la vecchia corazza, mettendoci a nudo, riflette la necessità di abbandonare le vecchie abitudini, credenze e difese al fine di permettere una crescita autentica. Questo processo richiede coraggio, poiché esporci senza la protezione delle difese abituali può essere estremamente spaventoso e può portare a sentimenti di paura e solitudine.
Quel momento di passaggio in cui abbandoniamo una vecchia condizione ma non abbiamo ancora raggiunto la nuova è un momento in cui ci possiamo sentire spaesati e impauriti. Durante questa fase, facciamo i conti con la nostra vulnerabilità, accettando di essere esposti e senza difese, ma è proprio in questo momento che avviene la crescita. È in questo senso che la vulnerabilità diventa RISORSA, POSSIBILITÀ, ALTERNATIVA. Dunque, anziché temerla, possiamo guardare la sua potenzialità, che corrisponde al nostro POTERE DI REALIZZAZIONE PERSONALE e capacità di autodeterminazione.
Al contrario, nascondendo la sofferenza emotiva attraverso evitamenti o soluzioni temporanee, rischiamo di bloccare il nostro processo di crescita personale.
Allora è proprio quel senso di disagio che dobbiamo farci alleato. Il disagio e la sofferenza emotiva possono essere delle risorse trasformative, dei punti di partenza verso il cambiamento. L’esperienza del disagio, è un indicatore del bisogno di cambiamento e, nel momento in cui lo facciamo nostro complice, può portare alla trasformazione psicologica. Quando decidiamo di affrontare la sofferenza, iniziamo un percorso di auto-esplorazione e ricostruzione.
In conclusione, per crescere ed evolvere, è necessario lasciare andare le vecchie corazze che non ci servono più, accettare la vulnerabilità come parte integrante del cambiamento e avere il coraggio di affrontare l’incertezza per potere indossare un “abito” più comodo. Questo ci permette di vedere i momenti di crisi non solo come momenti di sofferenza, ma come opportunità di trasformazione e rinascita psicologica. Il cambiamento apre straordinarie libertà che permettono di riformulare e rivalutare alternative, e sviluppare nuove narrazioni e nuovi progetti.
Riporto un passo, tratto dal primo capitolo del testo dell’antropologo Stefano De Matteis, che utilizza il processo di evoluzione dell’aragosta presentandolo come una potente metafora psicologica dei processi di crescita e trasformazione umana.
L’aragosta possiede “un guscio rigido […] solido come una specie di armatura, indispensabile all’animale per difendersi dai pericoli e proteggersi dagli attacchi […] Non tutti sanno che l’animale nasce nudo, la ‘scorza’ gli si forma successivamente. Potremmo dire che è la sua natura a fornirgliela, dotandolo di un abito fatto su misura, adatto alla sua condizione momentanea. Solo che una volta realizzato, questo ‘vestito’ resta tale, nel senso che non si ‘allarga’, non si espande,non cresce con lui. Anzi, avviene il contrario: a mano a mano che il volume del corpo all’interno aumenta, quell’abito si fa sempre più stretto e l’animale sente, sempre più forte, la pressione delle pareti su tutta la superficie del corpo molle. Al punto che la sua armatura forte e resistente si trasforma in una sorta di gabbia, fino a diventare uno strumento di tortura.
Come fa l’aragosta a crescere? […] Quando la pressione della corazza diviene opprimente e insopportabile, l’animale sceglie un luogo protetto e difeso […] Lì getta via il vecchio guscio oramai piccolo e, soprattutto, scomodo e doloroso, e resta nuda. Esposta al pericolo e senza protezione alcuna. E aspetta che le cresca il nuovo abito. Svilupperà pian piano un’altra corazza adatta alle sue mutate esigenze […] Ma intanto quello è un momento di paura, di silenzio, di solitudine e, potremmo dire, di riflessione.
Durante la sua vita, l’aragosta compie questa operazione più volte, e ciascuna coincide con uno dei vari passaggi che ne scandiscono la crescita.
Quindi: la sua prima ‘pelle’ corazzata, così come le successive, diventa un limite apparentemente invalicabile, che crea malessere e disagio, ma è proprio questo a darle la misura del fatto che è arrivato il momento di affrontare quel limite e superarlo. Le indica la strada del cambiamento.
[…] se l’aragosta avesse a disposizione dei medici non ‘crescerebbe’ mai, perché alle prime avvisaglie di malessere le verrebbero somministrati farmaci atti a farla sentire subito meglio, medicamenti sicuramente capaci di farle sopportare la sua condizione ma che, intanto, bloccherebbero il suo naturale processo fisiologico. E […] l’animale non sentirebbe mai la necessità di confrontarsi con i suoi limiti e cercare di superarli.
[…]
Il dilemma dell’aragosta sta proprio in questo: lasciare le proprie corazze, capire quanto sono provvisorie, smettere di trincerarsi in quelle certezze che oramai procurano solo sofferenze ed esporsi al rischio, avendo il coraggio e la forza di scegliere la vulnerabilità. Vulnerabilità che si rivela un momento di estrema e fondamentale forza. Un passaggio decisivo. Perché produce il cambiamento e prelude alla ricostruzione di una nuova vita”.
Tratto da “Il dilemma dell’aragosta. La forza della vulnerabilità”, di S. De Matteis.